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  • Immagine del redattoreDott.ssa Moretti

"Come sono nato?" Raccontare le origini ai figli nati con l’aiuto della fecondazione assistita

Aggiornamento: 23 lug 2021

Tutti i genitori, ad un certo punto, devono rispondere alla domanda dei propri figli riguardo la propria origine e questo generalmente crea imbarazzo perchè ci si ritrova a parlare di un argomento così intimo e privato, come la sessualità, tanto più imbarazzante per i genitori, quanto più è piccolo il bambino.

Questo argomento diventa ancora più difficoltoso da affrontare quando per concepire il proprio figlio si è fatto ricorso all’aiuto della fecondazione assistita, sia omologa sia, in particolar modo, eterologa, in cui interviene l’aiuto di un donatore. Uno dei principali timori, in tutti questi casi, è quello che il proprio figlio venga stigmatizzato o non riconosca i propri genitori come tali.

In virtù di tutti questi aspetti le domande che più frequentemente mi pongono i genitori che hanno affrontato il percorso della PMA riguardano il: se, quando, e come raccontare ai propri figli il modo in cui sono stati concepiti.

Partiamo dalla prima domanda riguardo il se dirlo o meno

Partendo dal presupposto che decidere se dire o meno al proprio bambino com’è nato è una scelta troppo privata e soggettiva poichè dipende da diversi fattori quali: il sistema di valori di una coppia, il contesto socio-culturale di appartenenza, dalla personalità del bambino ecc.; è opportuno considerare e, quindi, conoscere alcuni aspetti psicologici che possono orientare nella decisione.

Dal punto di vista psicologico, infatti, quado i bambini pongono questa domanda è perchè stanno intraprendendo il processo di costruzione della propria identità attraverso la ricostruzione della propria storia a partire dalle radici. Si tratta di un processo complesso che dura l’intero arco della vita attraverso il superamento di crisi evolutive, mediante compiti evolutivi, tipici di ciascuna età secondo quanto teorizzato da Erikson. Rispondere, quindi, sinceramente e coerentemente alla sua domanda, significa aiutarlo nella costruzione della propria identità, diversamente bisogna tener conto che il bambino essendo un abile osservatore comprenderà che gli si sta nascondendo qualcosa, lo noterà soprattutto dall’incongruenza tra la comunicazione verbale e non verbale ovvero tra quanto gli si sta raccontando ed espressioni facciali, toni di voce, sguardi, incongrui, e questo potrebbe generare il lui la sensazione di essere sbagliato, compromettendo la fiducia in sè e nei genitori. Inoltre sono ben documentate, nella letteratura clinica, le conseguenze tossiche dei segreti familiari sulle relazioni al proprio interno, infatti, raccontare sinceramente il modo in cui si è stati concepiti eviterebbe il peso che un segreto di questo tipo genera nel sistema familiare e prevenire la possibilità di una scoperta “accidentale”.

A queste motivazioni psicologiche si aggiungono anche quelle relative alla salute fisica del proprio figlio nel caso dovessero ritenersi necessarie indagini diagnostiche per escludere o diagnosticare eventuali malattie in cui la componente genetica è significativa.

Pertanto alla luce di questi aspetti psicologici, emotivi e relazionali, il Comitato Etico del’ASRM (American Society For Reproductive Medicine) ha pubblicato nel 2013 un documento dove si dichiara che, nonostante una decisione di questo tipo sia strettamente personale e vincolata dall’opinione dei genitori, è comunque raccomandato un atteggiamento di onestà e apertura, sottolineando come questo rappresenti il meglio per il benessere del bambino proprio per riconoscere nel bambino, in quanto essere umano, il diritto di apprendere la sua storia, di poterla inscrivere nella costruzione della sua identità e di evitare, in questo modo, il mantenimento di quei segreti tossici che creano distanza emotiva nella costruzione del nucleo familiare e che potrebbero costituire in futuro elementi di tensione tra chi sa e chi non sa e prevenire la possibilità di “una scoperta accidentale”.

Quando raccontarglielo?

Sulla base di quanto finora esposto il momento in cui iniziare a parlarne è quando il bambino inizia a fare domande, un’opinione abbastanza comune che si sta diffondendo tra i professionisti rispetto all’età è quella di parlarne in età prescolare tra i 3 e i 5 anni quando inizia anche lo sviluppo sessuale del bambino, il quale, inizia ad essere consapevole del proprio corpo, delle differenze di genere e, vuole saperne di più su nascita e gravidanza. Ovviamente, la risposta dovrà tenere conto dell’età del bambino e delle informazioni che può gestire in base allo sviluppo cognitivo raggiunto, pertanto si tratta di una domanda a cui non si può rispondere in unico momento, in quanto si arricchirà di informazioni e dettagli mano a mano che il bambino crescerà, per esempio, se a 3 anni credono di essere sempre esistiti e vogliono solo sapere dove si trovavano prima, ovvero, di essere stati nella pancia della mamma, a 7 anni invece hanno bisogno di capire come sono stati creati e quindi di conoscere il ruolo reciproco dei genitori, mentre in preadolescenza sarà necessario introdurre il tema della sessualità ecc.

Come dirglielo?

Molto spesso dietro le motivazioni che i genitori adducono per non raccontare la verità al proprio figlio e che, generalmente, riguardano: il desiderio di proteggere i propri figli, l’idea che il concepimento sia un discorso che riguarda solo la coppia, o per le difficoltà relative agli aspetti esplorati in questo articolo, ovvero, se, come e quando dirglielo; si cela il non essere riusciti ad elaborare del tutto la ferita narcisistica della propria infertilità, ciò costituisce un ostacolo anche alla possibilità di affrontare l’argomento con naturalezza, senza che ciò procuri sofferenza o faccia sentire i genitori non completamente tali, e di conseguenza faccia sentire a disagio anche il proprio figlio.

Sarebbe auspicabile che, indipendentemente, dal modo e dalle parole usate, arrivasse al proprio figlio l’immenso amore che ha portato i genitori ad affrontare il duro percorso della fecondazione assistita e ad accettare l’aiuto di chi, ha permesso loro, di poterlo abbracciare oggi, sia esso medico e/o donatore/ice in quest’ultimo caso sarebbe opportuno parlare di questa persona molto generosa, definendola, appunto, donatore/rice in quanto pur avendo un legame genetico con il bambino non è il suo genitore e non fa parte del nucleo familiare.

Questo articolo ha voluto erogare una serie di informazioni dal punto di vista psicologico, che possono offrire uno spunto di riflessione sia nella decisione che nella modalità di raccontare ai propri figli di essere stati concepiti mediante l’aiuto della fecondazione assistita. Nel caso ciò non dovesse essere sufficiente e si desiderasse approfondire o, ci si rendesse conto che la propria ferita dell’infertilità non è ancora del tutto cicatrizzata o, vi è un disaccordo nella coppia genitoriale rispetto ai punti affrontati nell’articolo, allora potrà essere di aiuto richiedere la consulenza di uno psicologo che tratta le tematiche dell’infertilità e familiari.


Riferimenti bibliografici per la redazione dell’articolo:

F. Faustini, M. Forte, (2017), Un viaggio inaspettato. Quando si diventa genitori con la fecondazione eterologa, Rizzoli Libri



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